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Le donne nella Resistenza ci sono sempre state. Perché sempre sono state nelle lotte

Dedicare un discorso a parte rappresenta ancora oggi una stortura, un tentativo di rimediare all’omissione, di riempire un vuoto che, proprio nel tentativo di colmarlo, appare come una voragine. Nella storia, e perfino nelle narrazioni, prevale il neutro universale, il soggetto combattente asessuato si prende la scena, la parola, il senso. Il fatto, però, è che questo soggetto non è certo asessuato ma maschio ed eterosessuale. E spesso è anche bianco e occidentale. Tutti gli altri e le altre, hanno bisogno di essere nominati a parte, e allora nominiamoli, ma sappiamo che non è questo quello che vorremmo. Vogliamo infatti una narrazione che sia plurale come il mondo che viviamo e che sempre più vogliamo costruire. Un mondo nel quale diamo riconoscimento a tutte le soggettività che vi si affacciano, le donne e non “la donna”, e tutte le altre, innominate, innominabili ancora oggi, tanto che fatichiamo a trovare perfino gli strumenti linguistici per poterne esprimere la pienezza dell’esistenza. Le donne, “i femminielli”, le lesbiche e gli omosessuali, tutte le soggettività non eteronormate, hanno sempre partecipato alle lotte di liberazione, alla costruzione della storia. In prima fila nella rivoluzione d’Ottobre e nella costruzione di uno stato egualitario, nel rivendicare la cittadinanza mentre salivano sulla ghigliottina, nel difendere il proprio sapere dai roghi, il diritto ad esercitare la conoscenza dei corpi e degli universi. Disposte a sfidare il potere nelle case e nelle piazze, ma anche nelle biblioteche, nelle accademie che sempre più le hanno escluse, anche eliminandole e trucidandole. Si sono liberate dei fascisti e dei nazisti, formandosi nell’antifascismo, coltivando una presa di coscienza quotidiana, fatta di condivisione, andando oltre la costrizione di un ruolo subalterno e soffocante. E non c’era bisogno per forza di saper leggere e scrivere, a scuola anzi si imparava altro. Hanno scelto liberamente da che parte stare, loro che non avevano chiamate alle armi, necessità di sottrarsi agli obblighi di leva. L’hanno fatto in primo luogo per se stesse, come scelta di libertà e di autodeterminazione, perché è da sé che si parte per cambiare il mondo. Tessere le relazioni di affetto, di cura, come sempre sono state educate a fare, non toglie autonomia a questa scelta, semmai ne aggiunge. La retorica ufficiale che le vuole madri, sorelle, fidanzate spinte dall’amore non fa che ridurre pateticamente la capacità di scelta ad un ruolo sempre subalterno. E invece queste donne, e tutti quellx di cui ancora così poco sappiamo, hanno agito nella piena consapevolezza di sé, portando cibo e armi ai compagni, ma anche rifiutandosi di farlo e procurandosi le armi per combattere da sole, contro il parere dei propri comandanti. Hanno cucinato per gli altri, ma hanno anche affermato con rabbia che non erano entrate in clandestinità per “fare le serve”. Sono state torturate e quasi tutte violentate. E quasi tutte non hanno trovato spazio per parlarne dopo, spinte nelle retrovie già da quel 25 aprile del ’45, quando l’iconografia eroica prendeva piede nelle strade appena liberate e nell’immaginario che si perpetuava ancora uguale a se stesso. Le modalità le conosciamo bene. La violenza di ieri non ha mai avuto fine per le donne. Sono le stesse compagne, le donne violentate dai nazisti e dai fascisti di ieri e di oggi. In Africa, in America Latina, in Palestina, in Kurdistan, donne che hanno preso in mano la loro vita e per questo vengono trucidate. Si infierisce sui loro corpi sessualizzando i macabri rituali di morte. La guerra gli uomini l’hanno sempre fatta sul corpo delle donne, primo e ultimo campo di battaglia. Lo stupro è arma di guerra, dalla Roma antica alla Bosnia, alle case dove oggi siamo rinchiuse, dove siamo meno sicure che altrove, dove non vogliamo restare. Il femminicidio affonda la sua ragion d’essere nella stessa cultura che vedeva le donne come fattrici di un milione di baionette per il duce, in un regime eterosessista che non è mai cambiato, non si è mai davvero messo in discussione. Se il 2 giugno del ’46 le donne hanno votato è perché non potevano essere ignorate, sulla spinta delle compagne che prima di loro erano state private dei figli, imprigionate, sottoposte ad alimentazione forzata. Sulla spinta di quelle che rifiutavano di rientrare nei ruoli, che non avevano avuto timore di mostrarsi col fucile in mano, ma anche con la sporta piena di bombe, con i segni della tortura addosso. Ma nella Repubblica nata dalla Resistenza ci si era dimenticati di renderle eleggibili così come, per molti anni, di renderle pari agli uomini nel lavoro e nella famiglia. Non volevano rientrare nella normalità queste donne perché, allora come oggi, erano consapevoli che proprio quella normalità era il problema. Continuavano a scendere in piazza, a fare picchetti davanti alle fabbriche, scontri con la polizia. Tante nelle piazze e poche nelle istituzioni. E ancora oggi ci si dimentica che se nella nostra Costituzione il concetto di famiglia che vi è sancito non ha impedito la conquista successiva dei diritti civili per tutte e per tutti, lo dobbiamo a poche donne elette nella Costituente, al fatto che hanno puntato i piedi e lottato duramente, sostenute dalle loro compagne di strada. Tutto ciò scompare oggi nei racconti, nei libri di Storia, sostituito da una narrazione che rischia di essere ancora più tossica del silenzio. E invece è da questa presenza costante e combattiva che hanno preso forza i movimenti femministi, antagonisti, le lotte che oggi attraversano il mondo creando una rete transfemminista globale, l’unica oggi capace di creare una forte rete di resistenza al patriarcato neoliberista che dall’emergenza trae nuova linfa nell’esercizio del biopotere sui corpi, devianti, rinchiusi, clandestini, sui quali si reggono le condizioni di possibilità dell’agognato ritorno alla “normalità”. La resistenza di oggi è più che mai figlia della Resistenza, la vogliamo vivere il 25 aprile anche in quest’anno di pandemia, scendendo nelle strade non solo virtuali, per ribadire il nostro antifascismo, e tutte le volte che dalle nostre finestre vediamo la militarizzazione che avanza, il sopruso, la repressione che ha iniziato a insinuarsi subdolamente nelle nostre vite. Non bastano i controlli, i fermi arbitrari, le narrazioni tossiche che ci inoculano mainstream. Vogliono farci diventare i controllori di noi stessx. Il collaborazionismo è tanto più efficace se interiorizzato, lo sa bene chi ha dovuto misurarsi in un ruolo subalterno. Ma l’unico modo per fare i conti con tutto questo è collettivo, partendo da sé, costruendo reti di condivisione, nuove pratiche di resistenza. Come ci insegnano le compagne curde, che da molti anni costruiscono case e consuetudini, oltre che imbracciare il fucile. Sono strumenti che abbiamo affilato nei secoli, nei millenni di rivolta che abbiamo sempre tenuto accesa, anche se sottaciuta, ignorata, omessa. Anche oggi, nelle case, non lasciamoci imprigionare. Sappiamo come si fa a sfondare i muri, ad attraversare gli spazi, prendendo forza l’una dall’altrx. Come hanno fatto le donne della Resistenza sfidando famiglie e pregiudizi, paura, torture, sopravvivendo alle violenze e al silenzio, per passare il testimone a noi, in questo senso vere staffette del tempo.